Scritto da: Antonio e Francesco

Un nuovo giorno del nostro viaggio e come da copione non tutti si presentano in orario all’adunata.

L’aria del Nevada si fa sentire già dal primo mattino. In attesa dei ritardatari, quale miglior passatempo di scommettere sull’orario della partenza ormai slittata?

Molte sono state le puntate, anche se tutt’ora ci sono versioni contrastanti su chi sia stato il vincitore, c’è chi dice Michela, c’è chi dice Pelis, tutti siamo d’accordo che non sia stata Chiara.

Ad ogni modo, siamo sicuri di essere usciti dal parcheggio alle 8.53.

La prima tappa è stata un distributore poco lontano, per il consueto pieno alle macchine e la nostra colazione. Già, perché tra le varie mirabili attrazioni del Clown Motel purtroppo (o per fortuna?) la colazione non era inclusa…

Finalmente riusciamo a partire, prima tappa l’International Car Forest. Un messaggio segreto ci aspettava. 

Il paesaggio del Nevada con le sue distese ripetitive e montagne anonime ci ha accompagnato, insieme a giochi da auto divertenti come “indovina il cespuglio a cui sto pensando” e “guarda quanto niente”.

Poi siamo arrivati, e davanti ai nostri occhi si è parato uno spettacolo surreale.

Una selva di macchine, scuolabus, pickup piantati nel terreno disegnavano un paesaggio del tutto peculiare, una piacevole rottura dopo tanto niente.

Ciascun veicolo era coperto da una fitta rete di graffiti e messaggi che lo rendeva unico nel suo genere. Come novelli archeologi post moderni siamo riusciti a rintracciare in queste trame i segni dello scorso BigTour, tra firme e dediche sulla portiera di un camioncino.

La cosa più naturale da fare per noi a questo punto è stata quella di colonizzare un grande scuolabus arenato in cima ad una collina.

Mentre alcuni di noi si sono dedicati alla personalizzazione dello scuolabus-colonia con disegni di vario tipo e dimensioni, altri sono riusciti a recuperare il messaggio, conservato in un contenitore segreto ormai iconico per i partecipanti del Big Tour.

Il momento della lettura del messaggio e la sua successiva distruzione, sono passati in un silenzio rituale carico di emozione.

Vi chiederete cosa ci fosse scritto. Non lo saprete mai.

Forse un po’ per scaricarci dalla sacralità della situazione, e probabilmente anche per il sole a picco sulle nostre teste che da qualche ora ormai scaldava il nostro povero cervello, alcuni di noi hanno deciso di esibirsi in una danza rituale (che pochi lettori sapranno sicuramente riconoscere), coinvolgendo sempre più persone in quella che è diventata una coreografia che ha riempito lo scuolabus colonizzato.

Per riprenderci dalla performance siamo tornati ad esprimere il nostro estro sullo scuolabus-tela, chi con un pennarello indelebile per piccole miniature, chi con un tombo a punta larga per disegni più grandi, chi, con un ego più grande degli altri, direttamente con una bomboletta spray recuperata tra i rottami.

I nostri attacchi d’arte però si sono dovuti interrompere, perché era ora di ripartire alla volta di Gold Point, una ghost town non molto lontana (per le distanze americane).

Scesi dalla macchina ci siamo trovati in un paesino composto da casette di legno, quasi un set di uno Spaghetti Western.

E come in ogni film che si rispetti siamo entrati per prima cosa nel saloon.

Non avevo mai visto così tante cose così diverse concentrate in un’unica stanza. Targhe, fucili, adesivi, animali impagliati, foto, strumenti musicali, teschi, biancheria intima in varietà, bottiglie di alcolici di ogni tipo e ogni epoca, ossa varie, quadri, immagini votive di John Wayne, poster repubblicani e televisori con vecchi film western trasmessi a nastro, oltre a sicuramente cento altre cose che ci sono sfuggite.

Al centro di questa babele di ricordi, Walt, unico o quasi abitante stabile di Gold Point, ci ha accolto con un sorriso e una birra ghiacciata.

Forse l’immagine che può aiutare i nostri lettori a inquadrare Walt è quella di Yosemite Sam dei Looney Tunes, con il caratteraccio sostituito da un incredibile senso di ospitalità e una spiccata propensione alla conversazione.

Abbiamo trascorso il resto della mattinata e parte del primo pomeriggio in compagnia di Walt, facendoci raccontare tutta la sua storia, dalle origini nel Bronx, passando per le mogli italiane dei fratelli, giungendo ad un lavoro che non lo soddisfaceva a Los Angeles fino ad arrivare alla scoperta di Gold Point.

Un luogo in cui sentirsi libero, circondato dalla vastità del deserto del Nevada, in cui solo gli animali più forti (come Walt d’altronde) vivono rispettandosi, senza dover rispondere a niente e nessuno.

L’unico inconveniente? Il supermercato più vicino è a 60 miglia… Quello più fornito almeno a 80!

A forza di parlare con il nostro ospite, Walt ha deciso di farci fare una visita alla città abbandonata, aprendoci l’ufficio postale e una delle abitazioni per mostrarci come in quel posto il tempo si fosse fermato da anni.

Dopo tanta ospitalità ci siamo sentiti in dovere di sdebitarci con il mitico Walt, e così abbiamo deciso di redigere per lui una ricetta illustrata per cucinare degli spaghetti al sugo, dopo che, suo malgrado, ci aveva spezzato il cuore raccontando di come cucinava la pasta (omettiamo i dettagli per i sensibili).

Inoltre la nostra Chiara, che aveva con sé pane, sale, olio e origano, ha preparato per Walt una semplice ma sana bruschetta italiana. Dovevamo fargli provare un po’ il gusto della nostra Italia.

A forza di parlare di cibo e di pasta ci è venuto un discreto languorino e abbiamo deciso di ripartire, congedandoci da Walt.

Nel nostro girovagare (quasi) senza meta nel Nevada con una vaga direzione verso Las Vegas, siamo giunti nella ridente cittadina di Beatty, rimanendo abbagliati dall’insegna dello Smokin’ J’s BBQ.

Alcuni si sono fermati, cedendo alla tentazione di Ribs, Pulled Pork e Brisket, altri, insensibili a tanta bellezza, hanno preferito proseguire fermandosi a pranzare in un Denny’s.

Mi dicono che fosse buono uguale… Purtroppo non riusciamo a credergli.

Appesantiti dal pranzo siamo ripartiti, direzione sempre verso Las Vegas… Niente fermate intermedie!

Mai bugia fu più grande.

Non molto dopo, al primo cartello che indicava una generica “Big Dune”, siamo usciti dalla strada principale senza nemmeno troppi rimorsi.

La strada era “leggermente” dissestata, con buche decisamente profonde nascoste dalla sabbia.

Qui rimarranno nella storia le testate date da Francesco, Marco (ben 3 volte in 10 secondi) e Alice, eroi dei posti più lontani nel retro delle nostre chilometriche auto, sbalzati via ad ogni rimbalzo.

Per non rischiare di dover abbandonare le auto impantanate nella sabbia abbiamo parcheggiato a distanza di sicurezza e ci siamo incamminati.

E naturalmente è partita la gara a chi arrivava in cima alla duna più alta, seguita da quella a chi fosse sceso più velocemente.

Un minuto di silenzio per la ciabatta di Emanuele, ingoiata dalla duna al secondo passo della discesa e mai più ritrovata.

Las Vegas chiamava, sempre più vicina, e cominciava ad essere ora di incamminarci… Ma non prima di aver scritto Big Rock con i nostri corpi nella sabbia.

Un’idea semplice da pensare, un po’ più complicata del previsto da realizzare.

Un ringraziamento sentito alla “R” e alla “K” della scritta; il loro ingegno sarà per noi un esempio per gli anni a venire.

Tornati in auto, con un buon 30% in più del nostro peso composto in sabbia distribuito tra capelli, scarpe, tasche ma soprattutto mutande, siamo ripartiti, riaffrontando nuovamente le buche nascoste come se non fossero mai esistite.

Che sia coraggio o incoscienza, il tettuccio di Pathfinder per la nostra eccessiva sicurezza ha deciso di uscire dalle guide che lo trattenevano.

Nuova sosta obbligata, ma l’esperienza acquisita con le disavventure di Nebula aveva ormai forgiato un team di meccanici espertissimi. In pochi minuti siamo riusciti ad essere di nuovo in strada verso l’agognata meta.

Ma qualcuno tramava alle nostre spalle.

Davide aveva in mente una sosta che non poteva essere rimandata. Prendendo il comando del convoglio con la forza, ha costretto tutti a fermarsi al Terrible’s Casino.

Una stazione di servizio davanti a una grande base militare, un posto che definirei quantomeno peculiare, tra gadget a tema alieno, slot machine, un bagno a tema supereroi, una caverna refrigerata per le birre oltre a un alieno in scala 1 a 1 con cui abbiamo subito fatto amicizia.

Siamo ripartiti che il sole stava tramontando. Il piano malvagio di Davide avrebbe presto dato i suoi frutti.

Viaggiando sulla highway che ci avrebbe portato a Las Vegas ci siamo accorti dello spettacolo.

Eravamo a 60 miglia dalla città del peccato e i suoi palazzi erano ancora nascosti dall’orizzonte…

Il sole era appena sceso sotto l’orizzonte alle nostre spalle, e la sua luce filtrava ancora dal deserto…

Davanti a noi, come in uno specchio, succedeva la stessa cosa.

Non un secondo sole, ma la luce della città più luminosa della Terra rischiarava la notte, persino a quella distanza. Eravamo senza parole, e ancora non avevamo visto nulla.

L’ingresso in città di notte valeva decisamente la sosta inaspettata.

Entrando nella strip siamo stati sopraffatti dalle dimensioni degli edifici, dalla luminosità abbagliante delle luci, dal lusso sfrenato e dal cattivo gusto inarrivabile…

…Ma come si suole dire, quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas.