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Santa Maria.
Stremati dalla giornata precedente, conclusasi con la videoconferenza in diretta con l’italia (9 ore avanti) per scoprire la tesi e i ruoli che avremo nei vari dipartimenti, decidiamo di darci una botta di vita e dormire un’ora in più. La partenza è fissata alle 10 del mattino.

Benzina e ormai consueto shuffle degli equipaggi.
Siamo ufficialmente in California e lo si capisce subito da una cosa: le maniche corte fuori a Gennaio. Decidiamo di visitare l’altra cosa che contraddistingue la California da qualsiasi altro stato americano… le immense spiagge per surfisti.

Arriviamo a Pismo Beach in tarda mattinata. Il nostro piano malefico era spogliarci e lanciarci in acqua come veri spartani incuranti delle temperature glaciali dell’oceano… ma il cielo probabilmente teneva per i persiani, perché il sole non ne voleva sapere di uscire.

Pismo Beach è una spiaggia immensa, sia in lungo che in largo. Giornalmente decine di roulotte si riversano sulle retrovie e il bagnasciuga diventa una vera e propria passerella di gipponi 4×4. Se ne vedono di tutti i colori, con bandiere di tutti i tipi, e tutti che ti salutano come se condividessero con te l’euforia di un posto così surreale.

Non sappiamo il nome degli uccellini che scappano dalle onde. Anche google li chiama così. Ma se avete visto il corto pixar “Piper”, sapete di cosa stiamo parlando. Immaginatene un milione, talmente piccoli e teneri che anche il più rude tra noi si è lasciato sfuggire un “awwwwww”.

Gli uccellini che corrono non sono gli unici ad accoglierci. Anche i ranger fanno la loro parte, mettendo subito in chiaro che fare gli italiani fuori dai finestrini non è da surfisti fichi.
Siamo entrati a Pismo per una ragione, e una soltanto. I quad.
Dietro la spiaggia infatti si apre una distesa enorme di dune di sabbia, dove gli indigeni solitamente si divertono a perdersi con le moto a quattro ruote.
Ci dirigiamo al rental più vicino, carichi come bambini a Gardaland, ma subito realizziamo che il sogno sarebbe stato più dispendioso del previsto.
Ecco che quindi ci dividiamo in due gruppi: il team fame e il team sgommata.

Team Fame.
Il piano è sopperire la tristezza di non potersi permettere il quad con qualcosa che vada al di là dell’accezione “commestibile” come d’altronde è stato negli ultimi dieci giorni.
Troviamo fortunatamente appena fuori dall’uscita della spiaggia un posto ormai tappa fissa dei viaggi di BigRock: il Rock & Roll Diner. Un treno (si, un treno) trasformato in ristorante anni 50, con tanto di poltroncine in vinile, pareti tappezzate di fotografie e pubblicità vintage e un juke box (funzionante).
Mangiamo panini sfiziosi, piatti pazzeschi e ci viziamo con torte al limite della glicemia.

Nel frattempo fuori comincia a piovigginare… il che significa che la voglia di muoversi si riduce a sotto zero. Avremmo potuto rimanere lì a mangiare torte fino alla fine del viaggio.
E non facciamo a meno di pensare a quei poveri disgraziati sui quad sotto l’acqua.

Team Sgommata.
La partenza non è stata così adrenalinica come ci aspettavamo: passiamo almeno mezz’ora a firmare quintali di carte dove mettiamo a pegno anche la casa della bisnonna e guardiamo un video intimidatorio che illustra le molte modalità in cui ci avrebbero violato (monetariamente e fisicamente) nel caso fossimo tornati anche solo con la carrozzeria graffiata o bagnata.
Riusciamo finalmente ad avvicinarci ai quad, dove il classico indigeno medio (barba folta e pancia equatoriale) ci illustra per filo e per segno come evitare di far espolodere i veicoli, e noi con loro.
Potete quindi solo immaginare la reazione di otto ventenni spericolati di fronte ad una distesa di dune di sabbia.
Passiamo ogni singolo secondo dell’ora a disposizione ad andare su e giù per le rampe naturali. Sgommiamo e saltiamo. Ci impantaniamo e ridiamo.
Buttarsi a capofitto tra un baratro e l’altro, cavalcando bestie a motore, ti regala una sensazione di libertà e adrenalina pura mai provate prima.

Usciamo dal deserto giusto in tempo per sgommare attorno alle macchine del team fame, tornato a prenderci.

Salutiamo ancora i nostri amici ranger sgommandogli di fronte al pickup ed usciamo dalla spiaggia.

Ci attende un sacco di strada: l’obiettivo è raggiungere Monterey, a nord della costa californiana.
Nuvole e pioggia sferzano un paesaggio surreale. Da un lato colline e prati verdi (avete presente lo sfondo di windows XP? Ecco, quello), dall’altro l’Oceano, che di Pacifico aveva solo il nome.

Ci fermiamo a guardare il tramonto sul mare in una spiaggia trovata quasi per caso. Scattiamo mille milioni di foto e qualche intrepido si battezza pure i piedi (e un telefono) nell’acqua gelida. Quasi per caso inciampiamo su di un elefante marino, spiaggiato in un angolo a riposare. Immaginate un enorme sacco di patate, ora moltiplicatelo per cinque e copritelo con altro grasso e avrete un’idea dell’animale possente che non si calcolava minimamente un gruppo di disturbatori col telefono in mano.

Saremmo voluti rimanere all’infinito a goderci il paesaggio suggestivo, ma la strada è ancora lunga e la stanchezza comincia a farsi sentire.
Guidiamo per circa due ore nel buio, immaginandoci solamente la bellezza della costa attorno a noi, illuminata appena dalla luce della luna piena.

Cerchiamo di tenerci svegli in macchina, inventandoci qualsiasi motivo per intavolare discorsi filosofici su saghe spaziali famose di cui non vi diremo il nome (ma ci sono delle spade laser all’interno).
Arriviamo a Monterey in serata. Check in e subito in camera.
Nota a termine: abbiamo ricevuto anche l’accoglienza dei simpatici inquilini dell’albergo (una famiglia di procioni) con occhiate tipiche delle vecchiette pugliesi. Domani sapremo dirvi se avremo superato tutti la notte, scarpe comprese.