Ci svegliamo in un paesino appena fuori lo Zion National Park, con ben 14 gradi, in un albergo circondato da foreste e prati verdi da golf. Non siamo abituati a questo cambio di temperatura così repentino, siamo passati dal deserto all’Austria in pochissimi chilometri.
Il piano è semplice. Ritrovo colazionati ore 9 zero zero, partenza, ricerca di un supermercato dove rifornirci di viveri per pranzare al sacco, 20 chilometri per arrivare a Zion. Tempo previsto: un’ora e trenta.
Partiamo dall’albergo alle dieci.
Il primo supermercato che troviamo non vende cibo, solo aggeggini inutili e ciabattine fatte non si sa dove in Asia.
Il secondo supermercato sembra essere stato preso d’assalto per emergenza zombie dieci minuti prima del nostro arrivo. Rimediamo qualche fetta di pane, un pò di tacchino in busta e le meravigliose carotine americane che sanno di qualsiasi cosa tranne che di carota.
Siamo in strada per Zion alle 11.
Com’era quella cosa dell’imprevisto, del fatto che ogni giorno per la legge della grande sfiga ci deve capitare qualcosa?
Beh oggi sembra che a Zion regalino banconote da 100 dollari.
C’è il mondo.
Già al casello di entrata, dove paghiamo 35 dollari a macchina, ci dicono che i parcheggi interni sono pieni. L’unico modo (incredibilmente consigliato anche dai ranger) è fare gli italiani e parcheggiare sul ciglio della strada dove troviamo posto, oppure attraversare la zona del parco per uscire dall’altra parte e trovare parcheggio nella prima cittadina, tanto poi ci sono gli shuttle gratuiti che ci portano dentro.
Siamo sei mega gipponi che neanche la CIA saprebbe dove parcheggiarli sul ciglio della strada. Così facciamo le persone serie e decidiamo di andare nella prima cittadina dopo il parco.
Altri 30 dollari di parcheggio. Una rapina.
Ma ormai siamo lì, abbiamo già pagato l’entrata al parco. Piuttosto che perdere l’occasione di vedere Zion, decidiamo che rimanere è la scelta più dolorosa per il portafogli, ma è la scelta migliore.
Ridendo e scherzando sono già le 12. E il sole è al suo massimo livello di radioattività. Così chiudiamo le macchine, prendiamo qualsiasi tipo di liquido con noi e ci incamminiamo verso la fermata dello shuttle.
In Italia c’è Venezia, Firenze, Roma… siamo abituati alle valanghe di asiatici che ogni giorno vengono a visitare le nostre città… Oggi no. L’Italia probabilmente è vuota… sono tutti qui! Troviamo una coda enorme già solo per prendere gli shuttle. Così ci armiamo di cappellini e pazienza zen dei monaci buddhisti e ci facciamo questa mezz’ora di fila sotto il sole rovente.
Saliamo sul pulmino e ci dirigiamo dentro a Zion. Fortunatamente si è alzato un pò il vento e i 40 minuti di tragitto non sono così spaventosi. Certo, dopo qualche ora di sole e con tutto quello che abbiamo fatto nei giorni scorsi, sfuggire all’albicocco è veramente cosa da duri. Intanto percorriamo la gola di un canyon altissimo, con le montagne rosse che si stagliano alla luce del sole sul cielo terso, la foresta verde e l’acqua del torrente. Un paradiso.
È tempo di camminare. Così facciamo dieci minuti di sentiero, costeggiando l’acqua, fino ad arrivare al punto in cui, per proseguire, l’unica cosa che puoi fare è risalirlo a piedi.
Per cui buttiamo le scarpe in acqua e cominciamo a camminare.
La sensazione è splendida. Fuori, 40 gradi col sole che picchia. Dal ginocchio in giù, 10 gradi che bagnano la pelle e ti fanno rilassare come pochi.
Risalire un torrente non è però una cosa semplice. Bisogna stare infinitamente attenti a dove metti i piedi per i sassi e le rocce sul letto del fiume, secondo la corrente, che in alcuni tratti è talmente forte da quasi immobilizzarti e non riuscire a portare un piede di fronte all’altro.
Ci divertiamo un sacco a risalire il fiume Zion, ma tra la folla di persone e la corrente a volte troppo difficile da affrontare, decidiamo di fermarci dopo quasi un chilometro dalla partenza.
Mangiamo il nostro panino guardandoci attorno. Siamo ai piedi di una gola altissima e larga non più di dieci metri, con il torrente che scorre sotto. Le pareti bagnate da piccoli Rivoli d’acqua si colorano al sole di sfumature dorate.
Scendiamo con non poca fatica. La corrente ora è al contrario e mina il nostro equilibrio più di una volta.
Torniamo allo shuttle contando gli scoiattoli che vediamo per strada, ormai sono talmente abituati ai turisti che non si fanno problemi ad attraversarti la strada. Ne abbiamo visti 24!
Il rientro alle macchine è stato più veloce, ma infinitamente più caldo. Con le scarpe zuppe, i piedi a mollo ormai da tre ore, il sole che anche se sono le cinque del pomeriggio non placa la sua sete di scottature.
Ci cambiamo le scarpe al volo e ripartiamo!
Abbiamo due notti da ricchi che ci aspettano.
Arriviamo a Las Vegas in serata, non prima di esserci fermati a provare la vera pizza americana (che qualcuno ha voluto ordinare con l’ananas).
Le luci della città che non dorme si vedevano a decine di chilometri. Che spettacolo.
E via di entrata trionfale nella strip, in mezzo ai grattacieli e alle luci, ballando fuori dai finestrini canzoni tamarre.
Facciamo i ricchi, sulle macchine della CIA. A Vegas puoi essere chi vuoi.
L’Aria hotel ci accoglie con le sue enormi, lussuose penthouse suites e qui si interrompe il blog per due giorni.
Quello che succede a Las Vegas, rimane a Las Vegas.
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