Arriviamo in aeroporto a Venezia alle 12:30. Siamo tutti, bellissimi in maglietta SUN68 e pantaloni lunghi della tuta: abbigliamento che desta non poche attenzioni da chi ci vede passare. Un pò perché sembriamo la delegazione della playstation, un pò perché sembriamo dei lesionati ad andare in giro con la tuta e 40 gradi all’ombra.
Fa caldissimo. Ma noi siamo faine del deserto e sappiamo che in aereo la temperatura non ha niente a che invidiare con il freezer di casa. E si sa, che quando pensi di voler ingannare il destino, questo ha in serbo una mazzata per te.
E la divina punizione si manifesta con un’ora di ritardo sul volo per Chicago. Il che dovrebbe essere una cosa affrontabile, se non fosse per il fatto che lo scalo a Chicago dura solo un’ora e mezza e in quel lasso di tempo avremmo dovuto scaricare le valigie (in 30), passare la dogana (in 30), ricaricare le valigie (in 30) e rifare i controlli (in 30).
Chi ci ha seguito negli ultimi viaggi in America sa che, nella versione speedy Gonzales di tutto questo, ci partono normalmente due ore.
Per cui si, lo spettro del perdere la coincidenza si fa sentire.
Ma l’agenzia di viaggi ci rassicura che, all’arrivo a Chicago, avremmo trovato un addetto a scortarci come gruppo speciale direttamente al nuovo gate. Ci sentiamo molto presidenziali. Alla peggio, dovessimo perdere la coincidenza, ci terrebbero in albergo a Chicago una notte per ripartire alla volta di Salt Lake la mattina dopo. Ma noi non vogliamo questo. Abbiamo un lago salato che ci aspetta.
Il pilota rassicura tutti che ha messo la roba buona nel serbatoio e sfideremo le leggi della fisica per arrivare il prima possibile a Chicago. Così decolliamo.
Per molti di noi è la prima volta su di un aereo trans oceanico, per alcuni è la prima volta in un aereo in assoluto.
Passiamo così 9 ore a dormire, mangiare, bere coca cola e a guardarci tutti i film più recenti.
Atterriamo a Chicago talmente frastornati che non sappiamo più distinguere il giorno dalla notte. Ma siamo finalmente in suolo americano ed è questo che conta. Effettivamente la roba buona che il pilota ha messo nel serbatoio era veramente buona. Il ritardo accumulato alla fine era solo di mezz’ora.
Passeggiata, pensiamo. Credevamo di dover fare le corse e invece forse ce la caviamo anche facile.
Mai pensiero è stato più sbagliato.
Prima di tutto la delusione presidenziale. Niente omino scorta all’uscita. Solo la sua versione brutta e tozza che ci indica tutta una serie di buste arancioni con scritti i nostri nomi, attaccate alla peggio sul muro di fronte.
Biglietti nuovi fast track super plus premium, pensiamo. Mica tanto.
Ci infilano in una coda infinita per la dogana con un solo agente dedicato. La morte.
In mezz’ora passiamo tutti, ci fanno le domande più insulse, ma alla fine siamo al ritiro bagagli.
Prendiamo le valigie e le ridepositiamo venti metri più avanti, su di un altro nastro. Cominciamo ad essere preoccupati, li rivedremo mai i bagagli? Chi può dirlo. Ma non abbiamo tempo per discutere, chiediamo a chiunque dove andare per prendere l’altro volo e riceviamo risposte diverse da ogni addetto che incrociamo.
Ci fidiamo dell’ultimo che dice “Terminal 3”. Allora tutti fuori a prendere la navetta. E il tempo passa.
Guardiamo l’orologio e comincia sempre di più a salire la convinzione che saremmo rimasti a Chicago per la notte.
Mai perdersi d’animo, ci diciamo. Arriviamo al terminal 3.
Ricapitolando: dogana, ritiro bagagli, deposito bagagli, transfer… cosa manca? Ovviamente i controlli di sicurezza (di nuovo). Con una fila interminabile. Ecco che allora salta fuori l’italiano medio che è in noi e cominciamo a chiedere pietà a qualsiasi guardia incrociamo, per farci passare avanti.
I primi che superano i controlli sono chiaramente quelli con più fiato, da lanciare disperatamente al gate per fermarli prima che partano. Allora corriamo. E il terminal sembra non finire mai.
Arriviamo al G13 senza ossigeno. Tra un respiro e l’altro diciamo di aspettarci, che c’è un plotone di ragazzi in arrivo…
L’aereo è in ritardo di 45 minuti. Parte alle 9.
Bene, da un lato. Gli altri non devono correre.
Non facciamo in tempo a radunarci tutti, che il ritardo sale a un’ora. E poi a un’ora e venti.
Meglio, c’è il tempo per il primo panino americano. Possiamo mangiare con calma, poi prendere l’aereo, arrivare a qualche ora a Salt Lake (e ci sono ancora le auto da prendere) e finalmente toccare un letto.
Ma il destino di questa lunga odissea sembra che non abbia ancora finito con noi.
Ebbene si, perché mentre vi scriviamo, siamo ancora qui. A Chicago. Gli unici in tutto l’aeroporto ad aspettare un aereo che ha maturato ben quattro ore di ritardo.
Arriveremo a Salt Lake. Ci contiamo.
*Aggiornamento* L’hanno definitivamente cancellato.
Aspettiamo ora che il destino si materializzi in forma di albergo per la notte.
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